Teoria e modelli delle organizzazioni ibride

Far fronte alle sfide proposte oggi a livello sociale ed economico implica un sistema imprenditoriale inclusivo, ovvero dove le imprese sono driver di inclusione economica e sociale per i territori in cui si inseriscono con il loro agire.

I processi legati alla Terza rivoluzione industriale, quella legata alla globalizzazione, non ha fatto scomparire l’importanza del territorio bensì lo ha rilanciato, nel senso che la gara competitiva oggi si gioca a livello dei territori. Mentre prima dell’avvento della globalizzazione la competizione riguardava le singole imprese o i singoli gruppi d’impresa, che potevano uscirne vincitori o perdenti, ciò che sta succedendo oggi è che il destino delle imprese è legato a quello del loro territorio (Zamagni, 2016). Se un territorio “fallisce”, falliscono anche le imprese che in quel territorio operano e viceversa: il successo di un territorio è legato a doppio filo al successo delle imprese che in esso insistono.

Ciò ovviamente costringe ad un ripensamento radicale dei modelli di sviluppo e delle policy. Ecco perché, quindi, la rigenerazione dei territori parte da un nuovo modello di gestione degli spazi pubblici il cui genius loci si nutre necessariamente del coinvolgimento attivo dei cittadini e, quindi, di una capacità di tenere insieme il government e la governance della «cosa pubblica» per disegnare un nuovo sentiero di sviluppo.

Si tratta di generare una nuova ecologia dello sviluppo fondata sulle interazioni e sulle relazioni tra i soggetti che compongono l’ecosistema, rapporti grazie ai quali vengono innescati nuovi meccanismi di produzione del valore (economico, sociale, istituzionale ed ambientale) fondati sulla capacità di porre al centro la società e dei territori.

La risposta a tali esigenze messa in campo a livello imprenditoriale va sempre più nella direzione di organizzazioni ibride, modelli imprenditoriali votati a tenere insieme la mission sociale con attività di natura commerciale. Modelli che fanno del sociale un asset strategico per rigenerare risorse di diversa natura: umane, mediante lo sviluppo di nuova conoscenza e nuove competenze; economiche, attraverso la possibilità di aggregare una molteplicità di tipologie di fonti proprio in virtù della natura ibrida dell’organizzazione; fisiche, legate cioè al processo di trasformazione di spazi in luoghi, dove la relazionalità diventa l’ingrediente fondamentale per la buona riuscita del processo.

Ecco, quindi, che approfondire la teoria e i modelli di business dei veicoli imprenditoriali a finalità sociale generati da processi di ibridazione organizzativa riveste un importante significato per il contributo sia alla promozione di nuovi modelli di sviluppo locale nella nostra società che alla nascita di istituzioni multistakeholder capaci di promuovere la trasformazione dei nostri territori attraverso risposte innovative, “corali” e flessibili.

Questa biodiversità economica è già visibile nel nostro paese ed è riscontrabile in una molteplicità di soggettualità che, alcune con tratti più marcatamente “non profit” e altre invece più “for profit”, stanno cercando di imprenditorializzare il sociale, da un lato, e di socializzare le imprese, dall’altro. Si pensi alle cooperative sociali e alle imprese sociali ex lege, piuttosto che alle startup innovative a vocazione sociale o alla recente introduzione nel nostro ordinamento delle società benefit, mutuate dalle benefit corporation.

Nel testo che segue, il tentativo di chi scrive è, assumendo la letteratura internazionale, quello di offrire una panoramica delle differenti tipologie di ibridi organizzativi esistenti e le loro tratti distintivi, al fine di promuoverne l’uso all’interno delle nuove pratiche legate a processi di innovazione sociali che si sviluppano sia in territori urbani che periferici.