Giustizia sociale, lavoro, bene comune

Uno dei più devastanti pericoli che la cultura oggi corre è stato efficacemente descritto dallo scrittore del Novecento C.S. Lewis con l’espressione di “chronological snobbery”, per significare l’accettazione acritica di quel che succede semplicemente perché esso appartiene al trend intellettuale del presente.

E’ questo il caso della ingiustizia sociale che si manifesta nell’aumento sistemico delle disuguaglianze, e della quale sappiamo ormai quasi tutto: come si misura; dove è massimamente presente; quali effetti essa va producendo su una pluralità di fronti, da quello individuale a quello dell’assetto istituzionale; quali sono i fattori principalmente responsabili, oggi, dell’aumento delle disuguaglianze e così via. Non sappiamo però concettualizzarla, non ne conosciamo la ontologia, e quindi finiamo per prenderla come qualcosa di connaturato alla condizione umana oppure come una specie di male necessario per consentire ulteriori balzi in avanti delle nostre società. Insomma, come qualcosa con cui imparare a convivere, come in altre epoche storiche il genere umano ha saputo fare con le vicissitudini e le “stravaganze” della natura. L’accettazione supina del factum toglie così ali e respiro al faciendum.

Eppure, già Condorcet nel suo Esquisse d’un tableau des progrès de l’esprit humain del 1794, aveva scritto: “E’ facile dimostrare che le fortune tendono naturalmente all’eguaglianza e che la loro eccessiva sproporzione o non può esistere o deve rapidamente cessare, se le leggi civili non stabiliscono mezzi artificiosi per perpetuarle o per riunirle”. (Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, Einaudi, Torino, 1969, p.171). Quanto a dire che le grandi diseguaglianze sono soprattutto un prodotto dell’assetto istituzionale della società e della sua organizzazione sociale.
Queste note nascono dal rifiuto di tale modo di guardare la realtà odierna caratterizzata come è dalla crescita endemica delle disuguaglianze sociali. Vi è una cesura nel modo di concepire l’ideale della giustizia sociale che è il cosiddetto “paradosso di Bossuet”: gli uomini tendono a deplorare in generale ciò cui acconsentono in particolare. Si finisce con l’accettare la realtà della disuguaglianza, benché una simile condizione venga percepita come ingiusta. (Cfr. P. Rosanvallon, La società dell’uguaglianza, Castelvecchi, Siena, 2013). Nel prossimo paragrafo, passerò in veloce rassegna le principali sistematizzazioni di teoria economica sul tema qui in esame. Considererò poi le ragioni per le quali il vitello d’oro dell’efficienza venga oggi richiamato in servizio per legittimare – se non addirittura giustificare – l’ingiustizia sociale. Infine, abbozzerò alcuna prospettive di ricerca in grado, a mio giudizio, di liberare il pensiero critico dalla posizione di stallo in cui pare oggi impantanato: lavoro e bene comune saranno le due parole chiave che impiegherò per la bisogna. Non mi soffermerò, invece, sull’evidenza empirica intorno alla (in)giustizia sociale. La letteratura in argomento è ormai schiera e, nonostante l’impiego massiccio di raffinate tecniche di indagine statistico – econometriche, si è ancora lontani da un qualche consenso circa la domanda centrale: il mondo sta o no diventando sempre più diseguale? (Si veda, sul punto, B. Kauder, N. Potrafke, “Globalizzation and Social Justice in OECD Countries”, Review of World Economics, June, 2015).