Imprese Sociali e Welfare di Comunità

Le trasformazioni in atto nel contesto socio-economico del nostro paese, aggravate dal periodo di crisi, evidenziano l’incapacità dei tradizionali attori dal lato dell’offerta di trovare forme di risposta sufficientemente flessibili e adattabili alla complessità espressa dal lato della domanda. Tale carenza in termini di risposta a “bisogni, aspettative e necessità riferibili alla popolazione nel suo complesso e/o a particolari gruppi, segmenti e comunità” ha generato una “frattura sociale consistente nell’ampliamento e nella differenziazione delle disuguaglianze” (Venturi, Zandonai, 2016). Le difficoltà sul lato dell’offerta si aggiungo alla sempre maggiore ristrettezza in termini di risorse economiche disponibili.

I dati sulla spesa sanitaria italiana ne danno evidenza (Tabella 1): la spesa complessiva è cresciuta negli anni Duemila fino a conoscere una battuta d’arresto nel 2012 (Del Vecchio, Mallarini, Rappini, 2015). Guardando alla distribuzione percentuale della spesa tra pubblico e privato, è evidente come quest’ultima non sia cresciuta in misura compensativa rispetto alla riduzione di quella pubblica. Ciò ad indicare la difficoltà delle famiglie italiane ad affrontare le spese sanitarie a causa di una rilevante riduzione del proprio reddito complessivo. Al contempo, però, i dati sulla spesa sanitaria privata ci dicono che la spesa out-of-pocket (ovvero non intermediata da e rimborsata da soggetti assicurazioni di natura for profit o non profit) nel 2014 era pari a 33 miliardi (+2% rispetto al 2013) (Censis, RMB Salute, 2015).

Cioè a dire che nel nostro paese si sta sviluppando sempre più una cultura dell’“emergenza”, per cui i cittadini pagano “di tasca propria” prestazioni sanitarie al verificarsi del bisogno, piuttosto che investire in prevenzione in ambito sanitario, attraverso la sottoscrizione di forme di mutualizzazione dei bisogni, sostenendo così l’inefficienza e l’inefficacia del sistema.

All’interno di questo scenario, è sempre più necessario alimentare la “diffusione di iniziative e di approcci “generativi” al welfare che alimentano nuove catene di produzione del valore basate sull’attivazione di una pluralità di soggetti, iniziando dai beneficiari delle attività” (Venturi, Zandonai, 2016)4 . In altre parole, significa completare la transizione da un modello di welfare state ad uno di welfare society (o “civile”), due modelli di welfare che si basano su altrettanti principi. Da un lato, quello di redistribuzione, in cui lo Stato preleva dai cittadini risorse tramite la tassazione e le redistribuisce attraverso il sistema di welfare; dall’altro, il principio di sussidiarietà circolare in cui i cittadini sono coinvolti nel processo di pianificazione e di produzione dei servizi (co-produzione), che supera la dicotomia pubblico-privato (ovvero Stato-mercato) aggiungendovi una terza dimensione, quella del civile. Il paradigma della co-produzione rappresenta, da questo punto di vista, un riferimento importante per politiche orientate non solo alla ridistribuzione di risorse pubbliche ma anche all’incorporazione di interventi di inclusione, socializzazione, cura, educazione all’interno delle comunità (Venturi, Zandonai, 2016)5 . Tali attività sono proprie dell’agire delle organizzazioni non profit (in generale e, nello specifico, che operano nell’ambito della riduzione del disagio) e dei soggetti dell’imprenditorialità sociale (organizzazioni non profit market oriented, imprese sociali ex lege, cooperative sociali, startup innovative a vocazione sociale, cooperative di comunità).