La disuguaglianza strutturale nella stagione della rivoluzione digitale

Quaderni dell’Economia Civile n.6 di Stefano Zamagni, Università di Bologna

Introduzione

È oramai acquisito che questo nostro tempo è contrassegnato da un vero e proprio passaggio d’epoca; non dunque si tratta di una naturale evoluzione o di una mera magnificazione di tendenze già in atto durante la lunga fase della società industriale. Non sappiamo ancora come le nuove tecnologie convergenti e la cultura che le governa modificheranno l’essenza del capitalismo. Sappiamo però che è in atto una seconda grande trasformazione di tipo polanyano[1]. In questa sede, soffermerò l’attenzione su un aspetto specifico, ma di grande momento, dell’attuale transizione: l’aumento strutturale delle disuguaglianze sociali e della loro insostenibilità.

Uno dei più devastanti pericoli che la cultura oggi corre è stato efficacemente descritto dallo scrittore del Novecento C.S. Lewis con l’espressione di “chronological snobbery”, per significare l’accettazione acritica di quel che succede semplicemente perché esso appartiene al trend intellettuale del presente. È questo il caso delle ingiustizie sociali che si manifestano nell’aumento endemico delle disuguaglianze e delle quali sappiamo ormai quasi tutto: come si misurano; dove sono massimamente presenti; quali effetti vanno producendo su una pluralità di fronti, da quello economico a quello politico a quello etico; quali sono i fattori oggi principalmente responsabili, e così via. Non sappiamo però concettualizzarle, non ne conosciamo l’ontologia, e quindi finiamo per prenderle come qualcosa di connaturato alla condizione umana oppure come una sorta di male necessario per consentire ulteriori balzi in avanti delle nostre società. Insomma, come qualcosa con cui imparare a convivere, così come in altre epoche storiche il genere umano ha saputo fare con le vicissitudini e le “stravaganze” della natura. L’accettazione supina del factum toglie così ali e respiro al faciendum. E infatti assai scarse sono le proposte credibili per farvi fronte finora avanzate. Eppure, già Condorcet nel suo Esquisse d’un tableau des progrès de l’esprit humain (1794) aveva sentenziato: “È facile dimostrare che le fortune tendono naturalmente all’eguaglianza e che la loro eccessiva sproporzione o non può esistere o deve rapidamente cessare, se le leggi civili non stabiliscono mezzi artificiosi per perpetuarle o per riunirle”[2]. Quanto a dire che l’aumento delle diseguaglianze è soprattutto una conseguenza dell’assetto istituzionale della società e delle regole del gioco economico che essa sceglie di darsi.

Questo scritto nasce dal rifiuto di tale modo di guardare il fenomeno qui preso in esame. Le diseguaglianze non sono un dato di natura da accettare come qualcosa di ineluttabile. Vi è una cesura nel modo di concepire l’ideale della giustizia sociale che è il cosiddetto “paradosso di Bossuet”: gli uomini tendono a deplorare in generale ciò cui acconsentono in particolare. Si finisce così con l’accettare la realtà della disuguaglianza, benché una simile condizione venga percepita come ingiusta.

 

[1] La prima grande trasformazione della modernità fu quella magistralmente indagata da Karl Polanyi nel 1944.

[2] Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, Einaudi, Torino, 1969, p.171.