Dell’origine e del fondamento del principio di sussidiarietà circolare

Short Paper Stefano Zamagni, Università di Bologna

L’universale riconoscimento del valore e della importanza della sussidiarietà si scontra oggi con una preoccupante caduta delle sue possibilità di attuazione pratica. Sono dell’idea che ciò dipenda, oltre che dal ben noto ritardo della cultura italiana su tale fronte, da una perdurante confusione di pensiero tra le tre versioni del principio in questione: quella verticale, che chiama in causa la regola di distribuzione della sovranità tra i diversi livelli di governo (in buona sostanza, si tratta del decentramento politico-amministrativo); quella orizzontale che, invece, ha a che vedere con la regola di attribuzione di compiti operativi a soggetti diversi da quelli della Pubblica Amministrazione così da realizzare una cessione di sovranità;  quella circolare su cui mi soffermerò tra breve e che costituisce una forma, ancora inedita nel nostro paese, di condivisione di sovranità.

Se la sussidiarietà in senso verticale dice del rifiuto del centralismo e del dirigismo e parla dunque a favore del decentramento amministrativo, la sussidiarietà in senso orizzontale attiene piuttosto al criterio con cui si ripartisce la titolarità delle funzioni pubbliche tra enti pubblici e corpi intermedi della società civile,  suggerendo in tal modo che la sfera del pubblico non  coincide, pari pari, con la sfera dello Stato e degli altri enti pubblici.

Prima di procedere, desidero spendere una parola a proposito della concezione del principio di sussidiarietà elaborata dal gruppo di cattolici (E. Vanoni, P. Saraceno, S. Paronetto, G. Capogrossi, G. La Pira, A. Moro, P.E. Taviani e altri ancora) che si riunirono tra il luglio 1943 e l’aprile 1945 al monastero di Camaldoli, dando poi vita al celebre “Codice di Camaldoli”.

Si tratta di una concezione diversa da quella che si affermerà tra i padri costituenti all’epoca della stesura della Carta Costituzionale. (1)   Laddove si tratta dei compiti dello Stato, nel Codice si  legge che  compito primario dello Stato deve essere quello di: “a) lasciare a tutte le forze e attività che compongono il mondo sociale la libertà nella loro vita, cioè la possibilità di svolgersi secondo le leggi della propria natura; b) mantenere, perché questa libertà possa esplicarsi, la più esatta eguaglianza degli individui, delle famiglie e dei gruppi dinnanzi alle leggi; e cioè impedire che si stabiliscano e si mantengano privilegi positivi o negativi a favore di alcuni e a danno degli altri”. (2) Come sappiamo, assai poco della ricchezza di idee e di proposte del Codice transiterà poi nella Costituzione del 1948, per quanto si sostenga che quest’ultima risulta fortemente ispirata dal Codice di Camaldoli.

Non solamente l’espressione “bene comune” non ricorre una sola volta nella carta costituzionale, nonostante gli sforzi di G. La Pira e di altri costituenti per farcela entrare. Anche termini chiave come mercato e competizione non acquistano diritto di cittadinanza nel dettato costituzionale; mentre di impresa si parla una sola volta e a proposito di esproprio.

Soprattutto degno di menzione è l’intervento di G. Dossetti del 9 settembre 1946 alla I Sottocommissione: “La sottocommissione, esaminate le possibili impostazioni sistematiche di una dichiarazione dei diritti dell’uomo; esclusa quella che si ispiri ad una visione totalitaria, la quale faccia risalire allo Stato l’attribuzione dei diritti dei singoli e delle comunità fondamentali; ritiene che la sola impostazione veramente conforme alle esigenze storiche, cui il nuovo statuto dell’Italia debba soddisfare, è quella che: a) riconosce la precedenza sostanziale della persona umana… rispetto allo Stato…; b) riconosca ad un tempo la necessaria socialità di tutte le persone, le quali sono destinate a completarsi e perfezionarsi a vicenda mediante una reciproca solidarietà economica e spirituale: anzitutto in varie comunità intermedie disposte secondo una naturale gradualità (comunità familiari, territoriali, professionali, religiose) e quindi per tutto ciò in cui quelle comunità non bastino lo Stato”. (3) Quanto a significare che il solidarismo cristiano è essenzialmente un solidarismo sussidiario.