Perché la decrescita non e’ la soluzione

La proposta della “decrescita felice” vanta precedenti illustri: la teoria dello stato stazionario per primo elaborata dal grande filosofo ed economista inglese J.S. Mill a metà Ottocento. Mill – riprendendo alcune considerazioni di Malthus – parlava di stato stazionario per significare una situazione in cui il tasso di crescita netto dell’economia è uguale a zero.

Nel capitolo “Sullo stato stazionario” dei suoi Principles (1848), Mill criticava la scienza economica del suo tempo per aver identificato il benessere economico e sociale con l’andamento senza sosta della crescita dei profitti. Bloccare la logica egemonica dei “piaceri quantitativi” voleva dire per Mill mettere in discussione la capacità di autoregolazione del capitalismo e riportare in primo piano il ruolo della politica.

In seguito, altri economisti e pensatori hanno formulato ipotesi analoghe. Ricordo, tra questi, Paul Laforgue, genero di Marx, con il suo saggio Diritto all’ozio in cui è avanzata la proposta di lavorare tre ore al giorno (sic!); Bertrand Russell con il suo Elogio dell’oziosità che esplicitamente tratta di decrescita (propone un orario di lavoro di quattro ore giornaliere); E. F. Schumacher con il celebre Piccolo è bello.

Un’economia come se gli esseri umani contassero; ed ancora Nicholas Georgescu Roegen con il suo programma di “bioeconomia” avanzato negli anni Settanta del secolo scorso.

Non ci si deve dunque meravigliare se, di tanto in tanto, la preoccupazione per la sostenibilità e le preoccupazioni per il futuro spingono studiosi di diversa matrice culturale (ad es., J.S. Mill era un grande liberale) ad avanzare proposte del tipo decrescita felice, come in tempi recenti va facendo, con grande impegno, Serge Latouche.