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C’è un’evidente sproporzione tra quanto il non profit “pesa” davvero e come viene “contato”. Ci affanniamo a misurare il valore delle organizzazioni sociali con gli strumenti del manifatturiero — ricavi, valore aggiunto per addetto, produttività — dimenticando che qui la sostanza è altra: non sta nelle entrate ma in ciò che esce, non nel profitto ma nell’impatto.
Il Terzo Settore non è un pezzo marginale dell’economia: è la sua parte più sostanziale, quella che tiene insieme ciò che altrimenti si sfalderebbe.
Eppure, dopo la riforma, è come se servisse una ri-sostanza: tornare a riconoscere il valore di ciò che, proprio perché essenziale, rischia di diventare invisibile.
Come si misura, ad esempio, la presenza di 5,5 milioni di volontari nelle periferie e nelle aree interne del Paese?
Quanto vale un milione di lavoratori che, con stipendi mediamente bassi, garantiscono servizi di interesse generale e coesione sociale?
Quanto pesa il capitale sociale di queste reti nella competitività dei territori, o l’intangibile contributo delle economie sociali dentro il “Made in Italy”?
Quanto riconosciamo il loro effetto moltiplicatore e trasformativo nelle politiche pubbliche, a fronte di un sistema che tende a premiare solo ciò che è monetizzabile?
Ridurre tutto questo a una voce di bilancio è un riduzionismo contabile. Il valore del Terzo Settore non è un utile, ma un avanzo di senso, è eccedenza, non che si contabilizza. E proprio per questo, è generativo. Attribuire un prezzo ai beni relazionali significherebbe snaturarli: il dono non è “gratis”, è la forma più alta del valore. Così come il lavoro di un’impresa sociale non è quello di gestire fondi pubblici, ma di auto-organizzare la comunità per trasformarla. L’efficienza, la compliance, la rendicontazione sono strumenti necessari, ma il valore non sta lì. Sta nella libertà di orientarsi a uno scopo, non soltanto a una funzione.
Il Terzo Settore è chiamato oggi a risignificare i propri assunti, a riaprire cantieri trasformativi che rimettano al centro la qualità sociale del vivere, la reciprocità, la libertà “per” — non “da”.
In un tempo in cui “costruiamo sistemi talmente efficienti che non c’è più bisogno di essere buoni”, per dirla con Eliot, il compito del non profit è forse quello più rivoluzionario: rimettere la bontà al centro dell’efficienza, la sostanza al centro della forma, la libertà al centro del valore. Non si tratta più solo di funzionare, ma di generare valore: non in termini di PIL, ma di società libera, equa e solidale.
Perché, se l’essenziale è invisibile agli occhi, tocca a chi vive nel Terzo Settore renderlo di nuovo visibile.




