
Economie di luogo: fotografia e dimensioni qualitative delle cooperative di comunità
18 Settembre 2025Di Paolo Venturi, direttore AICCON
“Di che è mancanza, questa mancanza / cuore / che ad un tratto ne sei pieno?”
Con questi versi Mario Luzi ci introduce a una delle domande più radicali dell’umano: cosa rende vivo un cuore? Qual è la natura di quel vuoto che ci abita e che, proprio mentre ci manca, ci costituisce?
L’esperienza della mancanza può essere letta attraverso due orizzonti distinti: quello del bisogno e quello del desiderio. Viviamo immersi in entrambi, ma affannarsi, sacrificarsi, rischiare per un bisogno o farlo per un desiderio non è la stessa cosa.
I bisogni ci spingono a cercare soluzioni, prestazioni, servizi; il desiderio, invece, apre una traiettoria, genera movimento, ci pone in cammino verso qualcosa che non si lascia ridurre a un oggetto.
Noi esseri umani siamo “viventi particolari”: obbediamo alla legge della vita e abbiamo bisogni primari da soddisfare — mangiare, dormire, curarci — ma siamo anche abitati da un desiderio irriducibile, che non può essere surrogato. Un desiderio che non è “di qualcosa”, ma “oltre qualcosa”.
L’uomo ha sempre cercato di nominare questo innominabile, chiamandolo felicità, giustizia, compimento. Ma appena proviamo a definire cos’è la felicità o la giustizia, ritorna l’ambivalenza: non sono cose da possedere, ma tensioni da abitare. Il bisogno può trovare risposta in una prestazione.
Il desiderio, invece, postula una relazione. Organizzare un servizio partendo dalla mappatura degli stakeholder e da un questionario sui bisogni è una cosa; entrare in relazione con l’altro e chiedergli “cos’è per te una buona vita?” è tutt’altra. Mentre scrivo, mio padre si trova in una situazione che richiede assistenza domiciliare. Ma ciò che domanda ai figli non è soltanto una prestazione, bensì il riconoscimento del suo desiderio, di quella scintilla che lo tiene vivo oltre la contingenza.
È in questo spazio che si gioca una delle sfide cruciali del Terzo settore: tenere conto del desiderio dell’altro e non solo dei suoi bisogni. Negli ultimi anni, anche sulle pagine di Vita, si è parlato a lungo della sindrome regressiva che ha colpito una parte del Terzo settore e dell’impresa sociale.
Un fenomeno preannunciato e diagnosticato: il sociale è diventato contenitivo e non più trasformativo, gestore più che imprenditore, prestazionale anziché relazionale, funzionale e non politico. Oggi su questa diagnosi c’è ampia convergenza — fin troppa — ma poi? Ogni diagnosi, se non genera una terapia, rischia di diventare alibi.
Serve un’assunzione di responsabilità: occorre apprendere dal passato, lasciare il timone ad altri o farsi, per lo meno, affiancare e, soprattutto, occorre virare in una direzione diversa.
La mappa dei bisogni contenuti in una gara d’appalto non coincide con quella dei desideri di una comunità. Il tema non è, ovviamente — non vorrei essere frainteso — abbandonare la relazione con la Pubblica amministrazione, ma essere consapevoli che seguire solo quella mappa e quelle coordinate ci porta fuori strada. La denuncia e l’analisi spesso sono più forti della volontà di cambiamento. Cambiare rotta implica rischio, conflitto, sperimentazione. Implica investire nelle norme sociali, nelle relazioni, nei legami, anziché cercare sempre la norma giuridica che produce incentivi.
L’aver ridotto l’intervento sociale alla sola risposta ai bisogni — spesso codificati in un capitolato — ha separato i bisogni dai desideri, desertificando la spinta dal basso.
Se guardiamo indietro nel tempo, le grandi riforme del Terzo settore non sono nate dalla competenza amministrativa o dalla compliance normativa, ma da una forte spinta desiderante.
Diritti, innovazioni e giustizia sociale sono stati prima piattaforme culturali, poi istituzioni, infine leggi. Oggi, al contrario, partiamo dalle norme e fatichiamo a generare visioni. Il risultato non è lo stesso. La desertificazione del desiderio, che il Censis ogni anno ci ricorda, è una delle più grandi emergenze del nostro tempo.
Abbiamo ancorato l’azione alle necessità — spesso indotte — riducendo il desiderio a un accessorio del bisogno.
La celebre piramide di Maslow è emblematica di questa visione: prima bisogna soddisfare i bisogni, solo poi si può aspirare al senso. Ma chi chiede un pasto non ha sogni? Chi cerca cure non coltiva speranze? Chi lavora non ha ambizioni?
Questa frammentazione dell’umano impoverisce il reale e riduce l’azione sociale a mera risposta prestazionale. Gli toglie l’anima. Eppure, è forse proprio qui che si apre lo spiraglio da cui ripartire.
Ricomporre la frattura tra bisogno e desiderio è la condizione per rilanciare la straordinaria ricchezza contenuta nelle motivazioni e nelle azioni delle oltre 400mila organizzazioni dell’economia sociale. Una spinta evidente in tutte quelle soluzioni e istituzioni che, dal basso, senza chiedere il permesso, agiscono per generare valore pubblico. Sono istituzioni “del desiderio” prima ancora che “non profit”. Sono esperienze che non si limitano a prestare servizi, ma si mettono in relazione con la vita degli altri.
È da qui che dobbiamo ripartire. Rimettere al centro il desiderio: questo è il compito del Terzo settore se vuole continuare a essere non solo risposta, ma proposta. Non solo cura, ma relazione. Non solo funzione, ma visione.
Dante lo sapeva bene, quando nel sonetto dedicato all’amicizia immaginava il desiderio come forza che unisce, che resiste al tempo e al destino: “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento e messi in un vasel, ch’ad ogni vento per mare andasse al voler vostro e mio; sì che fortuna od altro tempo rio non ci potesse dare impedimento, anzi, vivendo sempre in un talento, di stare insieme crescesse ’l disio.”
È forse questo che ci manca: un luogo dove il desiderio possa crescere. Un Terzo settore inquieto, che si ricorda di avere il cuore pieno di questa mancanza.
Fonte: VITA (luglio/agosto 2025)