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L’innovazione sociale sembra vivere una condizione paradossale. Da un lato è celebrata come risposta creativa e generativa alle sfide complesse del nostro tempo – ineguaglianza, marginalità, crisi ecologica, fragilità istituzionale. Dall’altro, continua spesso a rimanere confinata in spazi sperimentali, in un limbo tra la retorica del cambiamento e l’incapacità di modificare le regole del gioco.
Perché queste pratiche – pur efficaci, riconosciute, talvolta premiate – faticano a diventare istituzioni? Una risposta ci viene da un autore insospettabile per il dibattito sull’innovazione sociale: il filosofo del linguaggio John Searle. Nella sua teoria degli atti linguistici e delle istituzioni sociali, Searle introduce un concetto chiave: l’intenzionalità collettiva, ovvero la capacità degli individui di condividere scopi e significati al punto da costruire realtà sociali che esistono perché crediamo collettivamente che esistano. Le istituzioni, secondo Searle, non sono semplicemente “create dall’alto” ma sono il risultato di atti collettivi di attribuzione di status, sostenuti nel tempo da un riconoscimento condiviso.
Applicata all’innovazione sociale, questa prospettiva offre una chiave interpretativa potente: ciò che rende una pratica istituzionale non è solo la sua efficacia o replicabilità, ma la capacità di generare un’intenzionalità condivisa attorno a nuovi significati e nuove regole.
Non basta “fare bene” o “fare meglio”. Serve costruire mondi condivisi, nei quali quelle pratiche diventino la nuova normalità.
Come si esce allora dalla nicchia? Come si passa dal “caso interessante” al “nuovo standard”? Ecco alcune piste.
- Riformulare il valore in chiave collettiva
Molte pratiche di innovazione sociale nascono per rispondere a bisogni reali, ma il loro valore è spesso comunicato in termini tecnici, prestazionali, o legati a un linguaggio da addetti ai lavori. Per costruire istituzionalità serve invece una narrazione che risuoni con l’immaginario collettivo, che traduca l’efficacia operativa in una visione del mondo condivisibile: giustizia, equità, mutualismo, benessere relazionale. - Costruire alleanze trasversali e spazi ibridi
Il passaggio da pratica a istituzione richiede coalizioni. Le pratiche innovative devono saper dialogare con le amministrazioni pubbliche, con il mondo economico, con la cittadinanza attiva. Serve costruire spazi ibridi dove si eserciti una “diplomazia sociale”, capace di mediare interessi diversi e sedimentare nuove regole. - Formalizzare senza irrigidire
Spesso si teme che istituzionalizzare significhi “burocratizzare”, perdere flessibilità o snaturare l’innovazione. Ma l’istituzionalizzazione, nella prospettiva di Searle, è un processo di attribuzione collettiva di significato. Formalizzare vuol dire trovare linguaggi comuni, indicatori, contratti, modelli giuridici che permettano la diffusione senza spegnere lo spirito originario. - Educare all’intenzionalità condivisa
Infine, servono dispositivi educativi e culturali capaci di rendere visibile il lavoro trasformativo delle pratiche sociali. L’innovazione sociale non vive solo nei progetti, ma nelle scuole, nei media, nei luoghi dove si forma l’opinione pubblica e si costruisce il senso comune. Promuovere l’alfabetizzazione civica all’innovazione vuol dire creare le condizioni per una cittadinanza capace di riconoscere, sostenere e moltiplicare quelle pratiche.
In definitiva, uscire dalla nicchia non è un problema tecnico, ma un processo politico e culturale. Si tratta di trasformare le pratiche in istituzioni non perché lo decide un’autorità, ma perché lo decide una comunità. È in questa capacità di dare forma condivisa al cambiamento che l’innovazione sociale può trovare la strada per diventare davvero pubblica.