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Il tempo della sostanza
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C’è un passaggio necessario, oggi, per comprendere davvero il significato del Piano per l’Economia Sociale: non limitarsi a guardare il dito, ma volgere lo sguardo verso la luna. Il dito è la norma, la misura, il perimetro istituzionale. La luna è la visione — quella di un’economia che non si limita a correggere gli errori del mercato, ma che propone un diverso modo di intendere la crescita, il valore e la convivenza sociale.
L’economia sociale non è una sezione specialistica dell’economia, né una parentesi “buona” nel sistema. È una visione trasformativa che unisce la dimensione economica e quella sociale in un solo orizzonte di senso: dove la forma — le regole, le istituzioni, gli strumenti — non può mai essere separata dalla sostanza, cioè dal suo fine sociale.
Per troppo tempo si è pensato all’economia sociale come a una leva di riparazione del modello di sviluppo. Ma oggi il contesto — segnato da disuguaglianze, crisi ambientale, transizioni tecnologiche — ci chiede di più.
Serve una trasformazione istituzionale profonda, capace di rigenerare i criteri stessi di creazione e redistribuzione del valore.
Come ricordava Douglass North, le istituzioni sono i vincoli che definiscono i rapporti sociali e orientano l’evoluzione di una società. Oggi, questi vincoli devono essere riscritti: non per adattarsi a un capitalismo più “gentile”, ma per costruire un’economia diversa, dove il benessere collettivo diventa la misura della produttività e la giustizia sociale è incorporata nei processi produttivi.
Superare la dicotomia tra economico e sociale significa ricomporre una frattura che ha impoverito il pensiero economico moderno. L’economia sociale ci invita a passare dalla razionalità alla ragionevolezza, a un approccio in cui la convenienza non si misura solo in termini di profitto, ma di bene comune.
Non bastano più le “esternalità positive”: occorre che la dimensione del valore sociale sia insita nelle pratiche di sviluppo.
La biodiversità organizzativa e imprenditoriale che caratterizza l’economia sociale non è un limite alla competitività: è una nuova forma di competitività, fondata sulla cooperazione, sulla cura dei legami e sulla capacità di generare valore condiviso.
Il riconoscimento dell’economia sociale non può essere solo formale. Essere parte di questo mondo significa essere riconosciuti per coerenza, per la capacità di rendere visibile e tangibile il proprio impatto sociale.
L’identità dell’economia sociale, infatti, non nasce solo dalla sua struttura giuridica, ma dal modo in cui viene percepita e legittimata dal corpo sociale. È un’identità relazionale e riflessiva, che si alimenta di fiducia, reciprocità e partecipazione.
Il Piano oggi in consultazione è un passo avanti importante: riconosce formalmente l’economia sociale come pilastro del nuovo modello europeo di sviluppo, in linea con le transizioni verde, digitale e demografica.
Ma il rischio, ora, è fermarsi alla compliance — cioè a una lettura tecnico-amministrativa di ciò che invece richiede una postura contributiva e generativa.
L’economia sociale non è un perimetro da delimitare, ma un immaginario da alimentare.
Richiede nuovi attori, nuovi linguaggi, nuove metriche del valore. Non solo riconoscere chi già fa parte di questo mondo, ma creare le condizioni perché altri possano entrarvi, innovare, contaminare e trasformare. Come in una costellazione, ogni impresa, cooperativa, associazione o impatto territoriale è una stella: il valore nasce quando iniziamo a disegnare le connessioni tra di esse, quando l’insieme diventa visione.
Guardare alla luna, oggi, significa non accontentarsi del riconoscimento, ma assumersi la responsabilità del cambiamento.
Significa credere che l’economia possa — e debba — essere strumento di emancipazione e libertà collettiva, non solo di crescita.
Il Piano per l’Economia Sociale apre una stagione nuova: sta a noi renderla feconda, mantenendo viva quella tensione tra forma e sostanza che sola può trasformare l’economia in un bene comune.




