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Oggi non è più sufficiente allontanarsi dalle logiche del Pil per dirsi sostenibili, poiché le trasformazioni in atto stanno ridisegnando il “campo di gioco” dell’economia e delle politiche spingendole e incentivando le istituzioni a realizzare azioni capaci di generare valore senza impattare negativamente su ambiente ed equità.
Un processo irreversibile che necessita però di una prospettiva integrale e non “strumentale o tattica”, perché non sempre le intenzioni buone generano buone azioni. Non si esce infatti da una crisi entropica solamente con provvedimenti legislativi, con sanzioni e incentivi e con l’immissione di risorse economiche per investimenti – pure necessarie – ma affrontando di petto la questione del senso, inteso come significato e direzione dell’agire presente e futuro.
Serve infatti una visione non “adattativa”, ma “trasformativa” rispetto i cambiamenti radicali che stiamo vivendo; serve una visione dinamica che si prenda il rischio di costruire il futuro, avendo alla base una motivazione ideale capace di dare forma alla realtà, sia essa economica o sociale.
Una visione questa, particolarmente rilevante in una fase in cui, grazie al Pnrr, il nostro paese ha l’opportunità di mettere a terra corposi investimenti nel digitale e nel green: due vettori imprescindibili per immaginare “il dopo”, ma che non sono in grado di garantirci che una società più connessa sia più umana e che una economia più green sia necessariamente anche più inclusiva e comunitaria.
Occorre, infatti, superare la tentazione di promuovere una visione di sostenibilità fredda e anaffettiva rispetto alla comunità, una visione che spesso declina strategie di mera ottimizzazione dei processi produttivi dimenticandosi di stimolare reciprocità e capitale sociale.
È necessario e urgente de-carbonizzare ma non discapito del farsi comunità, è indispensabile accelerare la transizione digitale e l’utilizzo di energia rinnovabile ma occorre includere chi non è in grado di pagare il prezzo di queste transizioni.
Sembra un paradosso, ma nell’epoca della transizione energetica è sorta una nuova forma di ingiustizia che riguarda quasi 2,3 milioni di famiglie: la povertà energetica. Un fatto nuovo che si aggiunge a nuove e inaccettabili forme di povertà (come quella educative e minorile che riguarda il 13,6% dei bambini e adolescenti).
Ridurre lo spreco è necessario ma non sufficiente. Serve una prospettiva di “sostenibilità integrale” capace di garantire una piena valorizzazione delle risorse, assumendo contemporaneamente come priorità la tensione alla “fioritura umana” e al potenziamento della comunità.
Una posizione questa che dilata lo spettro del paradigma dello sviluppo sostenibile, introducendo oltre alla dimensione ecologica, economica e sociale, una quarta dimensione, ossia quella antropologica che trova nell’auto-organizzazione dal basso e nella cooperazione la modalità più adeguata per prendersi cura di sé e dell’ambiente. Un “salto di scala” nella definizione della catena del valore e degli assetti di governance che sono alla base delle scelte pubbliche.
La sostenibilità integralmente intesa richiede un ambiente amico non solo dei beni privati e dei beni pubblici ma anche dei “beni comuni”. La scoperta – si fa per dire – che la salute di ciascuno dipende da quella di tutti gli altri, significa che la salute è, tecnicamente, un bene comune globale, vale a dire né un bene pubblico né un bene privato, e come tale va gestito.
Già la scienziata politica americana Elinor Ostrom aveva anticipato in «Governing the Commons» del 1990 che la gestione di un bene comune non può essere né di tipo privatistico né di tipo pubblicistico, né ancora di tipo misto, sia pure in qualche modo aggiustati, ma di tipo comunitario.
Quanto a dire che il modello di riferimento non può essere quello bipolare “Stato- Mercato”, ma quello tripolare “Stato-Mercato-Comunità”, secondo il quale tutti e tre gli attori devono interagire tra loro, su basi paritetiche, nelle fasi sia della coprogrammazione sia della conseguente co-progettazione.
Una sfida che riguarda in particolare gli oltre 360 mila enti del terzo settore, dell’economia sociale e civile ma non tanto perché “rappresentanti” del pilastro comunitario, ma per il fatto di saper combinare la produzione di beni e servizi con la creazione di beni relazionali e forme di mutualismo che oggi costituiscono il vero valore territoriale.
La diversità settoriale del non profit e la sua eterogeneità giuridica costituiscono una risorsa imprescindibile per alimentare processi di rigenerazione e innovazione sostenibile.
Lo vediamo nelle periferie delle città, nelle aree interne, nelle politiche per il contrasto alle povertà, nelle soluzioni di welfare di prossimità. Esperienze che portano “le prove” della rilevanza del terzo pilastro nelle strategie di sostenibilità.
La promozione delle organizzazioni della società civile nelle transizioni della nostra epoca, non è pertanto uno “sfizio” ma una necessità, perché la sostenibilità o è integrale o non è.
Articolo tratto dalla Guida “Non Profit” de Il Sole 24 Ore.