Articolo di Paolo Venturi, AICCON e Andrea Baldazzini, Università di Bologna pubblicato su CheFare.
Per decenni si è guardato al futuro delle collettività muovendo dalla convinzione che la storia potesse conoscere un’unica direzione: quella del progresso e dell’evoluzione verso un benessere maggiore. Eppure, le recenti crisi (economica, ecologica e sanitaria) hanno messo profondamente in discussione una tale certezza, portando alla luce un presente che, come ricorda Mark Fisher, risulta popolato da numerosi fantasmi, ovvero da entità ideali, valoriali e soggettive che “non sono più” ma allo stesso tempo “non sono ancora”1.
Un presente segnato inoltre da una grande schizofrenia: da un lato richieste per un adattamento sempre più rapido, dall’altro cambiamenti che sembrano impossibili da raggiungere nel breve periodo. Quest’ultimo decennio ha però permesso di riappropriarsi anche di una consapevolezza che era andata persa, e cioè il sapere che il futuro resta un prodotto “comune” frutto della responsabilizzazione e partecipazione di tutti gli attori sociali, la cui guida e costruzione non può venire delegata a pochi. Dunque, come restituire al presente la forza di catturare il futuro senza ingabbiarlo o limitarne le potenzialità? Come è possibile fare strategie e sviluppo senza cadere in una programmazione fallace? Come coltivare un adattamento che sappia essere trasformativo e non semplice risposta emergenziale?
Come restituire al presente la forza di catturare il futuro senza ingabbiarlo o limitarne le potenzialità? Come è possibile fare strategie e sviluppo senza cadere in una programmazione fallace? Come coltivare un adattamento che sappia essere trasformativo e non semplice risposta emergenziale?
Diventa ormai chiaro che la difficoltà più grande, tanto per le organizzazioni, quanto per i paesi, sia quella di definire il “come” decidere rispetto al futuro2. Le decisioni diventano infatti più frequenti ed esasperano i criteri alla base dei quali poi noi siamo chiamati a “tagliare” (dal latino de- cìdere, tagliare via). La domanda si fa cruciale oggi non solo per l’incertezza e l’accelerazione dentro cui siamo immersi, ma anche perchè, a partire dal nostro paese (basti pensare al PNRR, Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) siamo tutti chiamati ad immaginare e progettare il “dopo”.
Per certi versi siamo in una fase istituente, una fase che non può risolversi appena in un rafforzamento e in una maggior strutturazione delle forme di progettazione. Il paradosso, infatti, risulta evidente: come si può pianificare o progettare un futuro così incerto e imprevedibile?
Il rischio di presentificare il futuro
La tendenza predominante sembra essere quella di cercare l’adattamento a un futuro permanentemente aperto attraverso misure di chiusura selettiva (scenari?), ma in questo modo non si fa altro che dare vita a strutture più rigide e totalmente schiacciate sul presente. Il vero rischio è che il presente ingabbi il futuro, non lo faccia fiorire nel timore dell’imprevisto3. L’obiettivo deve invece diventare quello di creare organizzazioni capaci di adattarsi, in maniera trasformativa, a qualcosa che non è ancora stato predetto e immaginato, ovvero convertendo la paradossalità di tale richiesta in un motore di innovazione. La vera difficoltà è infatti quella di formulare strategie che non limitino le organizzazioni in scenari futuri predeterminati, poichè rischierebbero di ridurne la flessibilità e, di conseguenza, la capacità di adattamento rapido a scenari imprevisti4.
Non stupisce infatti come ad accumunare le risposte che da un lato presentano tratti di “restaurazione”, secondo cui l’unica via è tornare a rinsaldare i rapporti con un sistema centralizzato e autoritario di decisioni per far fronte alla complessità e imprevedibilità del futuro, dall’altro mostrano un carattere puramente adattivo rispetto alla gestione delle criticità improvvise5, è proprio il comune appiattimento sul presente, o per meglio dire la “presentificazione del futuro”. Quest’ultimo si trova così privato della qualifica di proiezione per divenire un mero ripiegamento sullo status quo, perdendo qualunque potenziale trasformativo.
Trappola questa in cui scivolano tutte le organizzazioni che costruiscono forme di programmazione basate sul passato. È però possibile individuare una terza modalità di messa a valore del futuro, ovvero quella che potremmo definire del “possibile adiacente”, dove il fare innovazione diventa sinonimo di «esplorazione dello spazio reale e allargamento dello spazio del possibile»6.
Prendere decisioni senza ingabbiare il futuro, significa dunque mettere a valore il desiderio, la contingenza, ciò che è possibile, e trasporlo sul piano concreto del management e delle culture organizzative; significa ricombinare il rapporto che lega risorse e soluzioni adottando un approccio decisionale che si basa su due caratteri: quello esplorativo (si va in cerca di risorse all’interno di nuovi contesti e attivando conversazioni con nuovi soggetti) e quello sperimentale (si costruiscono progettualità in grado di modificarsi “in the making”, ovvero in corso d’opera, che sappiano continuamente riflettere su se stesse e abbandonare la linearità del percorso).
Adottare una modalità di approccio al futuro basata sul principio del “possibile adiacente”, porta così le organizzazioni ad ancorare prospettive, sfide e inneschi trasformativi dentro il presente, che viene mantenuto aperto e capace di esplorare, sperimentando, ciò che è possibile. Un modo, questo, per apprendere a navigare a vista in un futuro altamente paradossale e del tutto imprevedibile, senza però rinunciare al protagonismo e ad un agire progettuale.
Disegnare nuove interdipendenze attraverso i luoghi
Ovviamente una tale prospettiva non può basarsi unicamente su una trasformazione dell’agire dei vari soggetti, ma necessita anche di un potenziamento e di un cambiamento nelle modalità di alimentare e disegnare le interdipendenze. Immaginare il futuro oggi, diventa infatti un processo più che mai corale, e trova la sua premessa proprio nella costruzione di ambienti capaci di dare ossigeno (e non soffocare) all’intrapredenza, ambienti abilitanti in grado di stimolare processi generativi attraverso “patti”, “fiducia” e “reciprocità”, senza affidarsi unicamente ai contratti e alle norme codificate.
Un cambiamento già in atto, osservabile in un numero crescente di tutte quelle esperienze che riescono ad innestare la propria azione su due cardini a nostro avviso imprescindibili “per fare accadere” e non solo “per fare”.
Il primo riguarda il rilancio della dimensione di luogo nella sua triplice declinazione di:
- dimensione locale: si pensi alla rinnovata centralità del quartiere come fulcro per l’attivazione di reti di welfare di comunità o al ripensamento dei servizi in ambito urbano secondo il modello della “città in 15 minuti;
- dimensione comunitaria: caratterizzata dall’attivazione di community (anche virtuali) che diventano il prototipo per progettualità imprenditoriali7 o dall’associarsi di cittadini che danno vita ad esperienze come le comunità energetiche o gli empori solidali;
- dimensione pubblica e ibrida degli spazi: dai co-working ai community hub, dalle esperienze di rigenerazione urbana al potenziamento di luoghi tradizionali (es. le biblioteche) come nodi del welfare, gli spazi per la collettività trovano una loro nuova collocazione all’insegna dell’ibridazione tra funzioni e utenti, fra intenzioni e gli impatti prodotti.
Alleanze per un futuro desiderato
Il secondo invece riguarda la convergenza degli attori sociali verso la costruzione di nuove alleanze e coalizioni, definibili come interdipendenze che si fanno metodo nel creare un ambiente che stimola verso la ricerca di nuove potenzialità ed occasioni8 e che aumenta lo spazio del possibile9. Anch’esse possono poi trovare una triplice formulazione:
- alleanze connettive: alimentano i network e permettono la nascita di reti altamente plurali;
- alleanze collaborative: trovano traduzione in partenariati e community che condividono i mezzi seppure ciascun attore presenti finalità differenti;
- alleanze di scopo: coinvolgono soggetti diversi i quali condividono però sia mezzi che finalità comuni (si pensi a certi distretti, alle filiere a matrice cooperativa o agli ecosistemi territoriali legati a sfide trasformative).
La recente crisi ha mostrato chiaramente quanto siano necessaria la presenza di tutte queste tre forme di alleanza se si vogliono strutturare ecosistemi e reti in grado di esplorare quel “possibile” di cui il futuro risulta carico.
Mettere in campo progettualità capaci di restare “aperte”, in grado di riadattarsi in corso d’opera, e strategie che guardino al domani scegliendo di mettere radici nei luoghi, significa perciò assumere senza sconti la sfida della complessità e decidere di affrontare la lunga transizione apertasi con il nuovo millennio attraverso un agire comune che rende il futuro un fatto del presente legato ad una responsabilità condivisa.