Prosegue il percorso sulla prospettiva civile dell’Impatto Sociale
2 Luglio 2024Synthesis Report. Blueprint for advanced skills & trainings in the social economy
3 Luglio 2024Articolo di Stefano Zamagni (Università di Bologna) tratto dal documento programmatico “Verso il Welfare del 2030. Strategie e proposte cooperative per il sistema regionale del FVG” realizzato da AICCON Research Center e Confcooperative Federsolidarietà Friuli Venezia Giulia.
La costruzione di una strategia di alleanza tra Enti del Terzo Settore (qualifica giuridica a cui appartengono de facto tutte le cooperative sociali), Pubblica Amministrazione (PA) e soggetti for profit è uno dei compiti più difficili del nostro tempo, ma è anche un compito irrinunciabile se si vogliono superare le afflizioni di cui soffrono le odierne società.
Non c’è vita buona nella separazione, nell’assenza di confronto tra le tre suindicate sfere per quel che concerne specificamente la produzione e la fornitura di servizi alla persona a comunità evolute come sono le nostre. (Giova precisare che l’espressione “terzo settore” ha conosciuto una rapida e generalizzata diffusione a partire dal 1973 in seguito alla pubblicazione di due saggi da parte di altrettanti studiosi americani: A. Edizioni, Third Sector and Public Administration, 1973 e T. Levitt, The Third Sector: New Tactics for a Responsible Society, 1973). Non è affatto utopistico pensare, oggi, che in seguito al passaggio dalla obsoleta struttura bipolare (Stato-Mercato) di ordine sociale a quella tripolare (Stato-Mercato-Comunità) possa derivare un decisivo balzo in avanti del nostro modello di civilizzazione. […]
Il principio di sussidiarietà e il connesso mutamento del rapporto pubblico/privato nell’organizzazione e nell’erogazione dei servizi alla persona vengono dunque a costituire i pilastri del nuovo modello di welfare che non senza fatica l’Italia sta cercando di definire e realizzare.
Ciò ha già determinato una profonda trasformazione della configurazione dell’intervento dei pubblici poteri, con il passaggio da un modello incentrato sulla prevalenza dell’erogazione pubblica dei servizi ad un modello in cui i diritti sociali escono dal rapporto obbligato con le prestazioni erogate dalla pubblica amministrazione per inserirsi in un sistema di servizi sociali a più soggetti protagonisti, istituzionali e della solidarietà, ove prevalente è la cura e la garanzia dei diritti della persona più che l’individuazione dei soggetti cui ne è affidata la tutela. A sua volta, ciò va comportando un ripensamento per l’ente pubblico, chiamato a mutare il proprio ruolo da “attore” a “regista” nel nuovo welfare, per favorire il passaggio effettivo dal modello di welfare state a quello di welfare community […].
Se si analizza poi l’evoluzione europea delle policies della Pubblica Amministrazione nella fornitura dei servizi di welfare, è possibile individuare, dal dopoguerra ad oggi, tre distinte fasi.
La prima ha inizio a partire dagli anni ’50 ed è nota come “Old Public Administration”. L’obiettivo è quello di aumentare i livelli di efficienza delle organizzazioni pubbliche (dando maggiore autonomia ai dirigenti, e responsabilizzandone il comportamento). Questo modello poggia su tre pilastri: regole, controllo e, soprattutto, gerarchia. […] La seconda fase inizia negli anni ’70 ed è nota come “New Public Management”. L’idea che ne è alla base è quella di inserire all’interno delle organizzazioni pubbliche elementi di mercato, nella forma dei quasi-mercati, ovvero mercati in cui la proprietà rimane pubblica ma la gestione è di tipo privatistico. Questa seconda fase ha dato importanti risultati sul fronte del recupero dei livelli di produttività e di efficienza (privatizzazioni, sistema del contracting out e devoluzioni sono stati gli strumenti più utilizzati in esplicita applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale). […]
Infine, con l’inizio del nuovo secolo si apre una terza fase dei rapporti tra PA e Terzo Settore. Si tratta del modello noto come “New Governance Model”. L’idea che ne è alla base è quella di considerare il fruitore di servizi come un portatore di bisogni che non può essere spogliato degli attributi di cittadino. Il fruitore-cittadino è un soggetto che può esprimere il suo punto di vista circa il servizio e che coopera con la PA per l’individuazione delle soluzioni migliori. È in ciò il nucleo duro della sussidiarietà circolare. Va sottolineato che mentre il passaggio dal primo al secondo modello non è stato quasi avvertito, ed è avvenuto in modo piuttosto indolore, il passaggio alla terza fase va incontrando diverse sacche di resistenza. Parecchie sono le ragioni che si possono indicare. Certamente, una di queste è il ritardo culturale dovuto alla persistenza presso gli operatori sociali di antiche e ormai obsolete mappe cognitive. Un’altra ragione è di tipo ideologico.
Il fatto è che nel modello di welfare di comunità (o welfare civile, come chi scrive preferisce denominarlo) l’interazione fra gli stakeholder va realizzata in tutte e quattro le fasi del ciclo di produzione dei servizi: programmazione, progettazione, erogazione e valutazione. In tale modello, infatti, è l’intera società, e non solo lo Stato, che si fa carico del benessere di coloro che la abitano.
Se è la società nel suo complesso che deve prendersi cura di tutti coloro che in essa vivono senza esclusioni di sorta, è evidente che occorre mettere in relazione i tre vertici del triangolo con cui si può metaforicamente rappresentare la società: la sfera degli enti pubblici (stato, regioni, comuni, enti parastatali, ecc.), la sfera delle imprese, ovvero la business community, e la sfera della società civile organizzata: associazioni di vario genere, cooperative sociali, imprese sociali, organizzazioni non governative, fondazioni.
Le ragioni finora addotte in Italia per ostacolare una piena realizzazione del welfare di comunità sono quelle familiari: insufficienza di risorse monetarie; inadeguata capacità dell’apparato burocratico-amministrativo di far fronte a nuovi compiti; eccessiva eterogeneità dei punti di partenza tra le diverse regioni italiane; avversione al cambiamento da parte dei cittadini. C’è certamente del vero in tutto ciò; ma questo non basta a spiegare il fin de non recevoir nei confronti dell’accettazione della sussidiarietà circolare.
La ragione vera, piuttosto, è la difficoltà, di natura basicamente culturale, di far comprendere ai cittadini che l’abbandono del modello neo-statalista di welfare, (nel quale lo stato conserva il monopolio della committenza), non significa affatto cadere nelle braccia del modello neoliberista di welfare (il c.d. welfare capitalism, inaugurato negli USA nel 1919). Destatalizzare non implica necessariamente privatizzare, perché resta sempre aperta la via della socializzazione. Il motto è dunque: depubblicizzare socializzando e non tanto privatizzando.
Tale precisazione ci permette di cogliere il senso della nozione di amministrazione condivisa – espressione che appare per la prima volta nel saggio di G. Arena, “Introduzione all’amministrazione condivisa”, Rivista Trimestrale di Studi Parlamentari, 117, 1997. Il termine partenariato evidenzia una parità di ruoli e di funzioni tra pubblico e privato e quindi un rapporto non ispirato alla subalternalità ma alla parità […].
La perdurante confusione di pensiero tra le tre versioni del principio di sussidiarietà è all’origine delle difficoltà di implementazione dell’”Open Government Partnership”, al quale l’Italia aderisce fin dal 2011 (assieme a settanta paesi). […] Vediamo allora di chiarire, sia pure in breve, le differenze tra le tre versioni della sussidiarietà. Quella verticale chiama in causa la regola di distribuzione della sovranità tra i diversi livelli di governo (in buona sostanza, si tratta del decentramento politico-amministrativo); la orizzontale, invece, ha a che vedere con la regola di attribuzione di compiti operativi a soggetti diversi da quelli della Pubblica Amministrazione, realizzando così una qualche cessione di sovranità; la circolare, invece, ha a che fare con la condivisione di sovranità. Se la sussidiarietà in senso verticale dice del rifiuto del centralismo e del dirigismo e parla dunque a favore della innovazione amministrativa, la sussidiarietà in senso orizzontale attiene piuttosto al criterio di riparto delle funzioni pubbliche tra enti pubblici e corpi intermedi della società civile, suggerendo in tal modo che la sfera del pubblico non coincide, totalmente, con la sfera dello Stato e degli altri enti pubblici. Contracting-out, accreditamento, convenzionamento sono le forme principali in cui si attua la sussidiarietà orizzontale. […]
Con la sussidiarietà circolare i tre soggetti del triangolo devono interagire tra loro in modo sistematico, non sporadico, in forza di appositi protocolli operativi per decidere sia le priorità degli interventi da realizzare sia le modalità di esecuzione degli stessi.
In altro modo, è questa una forma nuova di governance basata sulla co-programmazione e sulla co-progettazione degli interventi, il cui fine ultimo è la rigenerazione della comunità. Quella dell’organizzazione della comunità (”community organizing”) è una strategia né meramente rivendicativa né tesa a creare movimenti di protesta. Piuttosto è una strategia la cui mira è quella di articolare in modo nuovo le relazioni tra Stato, Mercato, Comunità. […]
Giova sottolineare che mentre le pratiche di sussidiarietà verticale e orizzontale hanno natura additiva e ciò nel senso che si aggiungono alle pratiche già in esistenza attuate da Stato e mercato, subendone pertanto un doppio isomorfismo, le pratiche di sussidiarietà circolare hanno natura emergentista: l’entrata in campo del pilastro della Comunità va a modificare, col tempo, anche i rapporti preesistenti tra Stato e mercato, oltre che al loro stesso interno. La grande virtù nascosta della sussidiarietà circolare è la sua capacità di mutare sia la logica del comando, cioè dell’obbligazione (Stato) sia la logica dello scambio di equivalenti (mercato). […]
È dunque urgente prendere atto che i processi di innovazione sociale e di trasformazione dell’assetto istituzionale, come quelli che questo documento vuole stimolare e proporre, sono, oggi, una risorsa indispensabile per avviare un paese come l’Italia sulla via dello sviluppo umano integrale.
La recente linea di azione politica che l’Unione Europea ha fatto propria si muove in questa direzione. Ne è prova il lancio dell’Action Plan for Social Economy, del novembre 2022, la cui cifra è quella di assegnare al Terzo Settore, e in modo speciale alle imprese sociali e alle cooperative sociali, compiti non solamente di welfare e redistributivi, ma pure di sviluppo economico, cioè di generazione di valore economico. Tanto che la Proximity and Social Economy è stata inserita tra i 14 cluster industriali sui quali poggia la recovery strategy europea. Quella della social and impact economy è un’idea recente in Europa e se ad essa si è giunti è anche merito del grande lavoro svolto dal Terzo Settore negli ultimi decenni. A tale riguardo, degna di nota speciale è pure l’approvazione, il 18 Aprile 2023, da parte della Assemblea Generale delle Nazioni Unite, della risoluzione sulla economia sociale e solidale, risoluzione che riconosce esplicitamente la rilevanza del Terzo Settore come agente fondamentale per la ricostruzione dei legami comunitari, cioè del capitale sociale delle nostre società. (Cfr. C. Borzaga et Al. “Social Economy in Italy: Dimensions, Dynamics and Characteristics”, Trento, Euricse, 125, 2023).
Chiaramente, perché un processo del genere possa mantenere la rotta una volta decollato è necessario che gli enti della cooperazione sociale siano nella condizione di operare come autentici soggetti d’impresa (e non come meri gestori sociali), il che implica che essi possano accedere a fonti di finanziamento che consentano loro non solo l’autonomia d’azione, ma soprattutto la capacità di programmare sul medio-lungo termine le proprie attività. Come noto, finora la fonte di finanziamento prevalente è stata quella dei fondi pubblici: convenzioni, gare di appalto al massimo ribasso, sono stati gli strumenti privilegiati che hanno rafforzato la dipendenza di tali enti dalla politica, soprattutto da quella locale. Ne conosciamo le conseguenze nefaste, la più grave delle quali è stata la pratica difficoltà di far progredire una vera e propria imprenditorialità sociale. Il risultato è che ci troviamo oggi con tanti ottimi e generosi operatori sociali, ma relativamente pochi imprenditori sociali.
Ecco perché occorre far decollare nuovi strumenti quali l’equity crowdfunding; la finanza d’impatto; i prodotti finanziari etici; i titoli di solidarietà; l’assegnazione di immobili pubblici inutilizzati e dei beni immobili e mobili confiscati alla criminalità organizzata, fino ad arrivare alla creazione di una vera e propria Borsa sociale. In Italia, paese in cui si parla quasi esclusivamente di politiche redistributive e non anche di politiche pre-distributive, il Terzo Settore costituisce un elemento di rottura di una strategia obsoleta e incapace di ridurre le crescenti diseguaglianze sociali. […]
Mi piace terminare con un brano, poco noto ma assai eloquente, di Alexis de Tocqueville tratto dal suo celebre libro Democrazia in America (1835). “Il dispotismo … vede nella separazione tra gli uomini la garanzia della sua permanenza … Il despota facilmente perdona i suoi sudditi per non amarlo, a condizione che essi non si amino l’un l’altro”. È proprio così, come sappiamo dalla storia. Ebbene, la mira ultima della nuova alleanza tra PA e Terzo Settore è proprio quella di scongiurare il rischio che la separazione di cui scrive Tocqueville abbia a materializzarsi. […]
Ebbene, non v’è chi non veda come per risolvere il problema di ciò che si ha in comune è necessario che i soggetti coinvolti riconoscano previamente il loro essere-in-comune. Il mio auspicio è che questo contributo possa innescare e rilanciare la relazione generativa fra Pubblica Amministrazione e Cooperazione sociale. Una relazione che ha la sua base nella nostra Costituzione e nella comune responsabilità di costruire il Bene Comune.
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L’articolo è tratto dal documento programmatico “Verso il Welfare del 2030. Strategie e proposte cooperative per il sistema regionale del FVG” realizzato da AICCON Research Center e Confcooperative Federsolidarietà Friuli Venezia Giulia. Il contributo approfondisce: